Ortigia, l’isola opulenta, splendente nelle sue chiese, monasteri e lussuosi palazzi, è un luogo dove il barocco siciliano esibisce il suo splendore. È l’Ortigia dei turisti, che arrivano da ogni angolo del mondo per ammirarne le bellezze. Tuttavia, per chi ha il tempo e la curiosità di allontanarsi dai percorsi principali suggeriti dalle guide turistiche, si rivela un’altra Ortigia, meno appariscente ma altrettanto emozionante.
Questa è Ortigia autentica, quella delle persone comuni, dei pescatori, dei commercianti e degli artigiani. Un luogo dove le dimore umili prevalgono, poiché l’isola non offre spazio per l’agricoltura. Ortigia è un’isola di rocce e sassi, con pochi spazi verdi. Eppure, il desiderio di verde persiste, manifestandosi nei piccoli giardini creati in contenitori improvvisati che ospitano basilico, piante aromatiche e qualche pianta ornamentale che lottano contro la salsedine e il caldo torrido delle estati siciliane.
In passato, quartieri abitati prevalentemente da arabi si affiancavano a quelli popolati da ebrei e cristiani, creando un tessuto etnico pacifico e tollerante. Ogni gruppo riusciva a mantenere la propria identità sociale e culturale in un contesto urbano spontaneo e caotico. Le case erano costruite con pietre marine, tufo calcareo e malta, e pur nella loro semplicità, spesso presentavano dettagli di bellezza che ancora oggi resistono. Dammusi e “bassi” dalle alte volte, archi in pietra e fregi barocchi riflettevano l’abilità degli artigiani locali.
I vicoli e i cortili fungevano da punti di aggregazione sociale, dove la vita si svolgeva all’aperto, sotto l’ombra di un fico o di un gelso d’estate, e al caldo di un muro soleggiato d’inverno. Erano luoghi dove i bambini giocavano sotto la supervisione delle madri, dove si discuteva, si cuciva, si ricamava, e gli uomini trovavano riposo dopo una giornata di lavoro.
Gli spazi abitativi erano angusti, spesso ospitando intere famiglie e animali in pochi metri quadrati. I palazzi nobiliari riservavano i piani terreni a stalle e scuderie, mentre il popolino divideva gli spazi con gli animali per necessità.
I greci, dopo aver sbarcato sull’isola, costruirono i loro primi templi in onore di Apollo e Atena, ma poi preferirono espandersi nell’entroterra, costruendo la loro “neapolis” con edifici governativi e di svago.
Le calamità naturali, come il terremoto degli anni ’90, e le crescenti esigenze abitative, unite a scelte politiche discutibili, hanno portato al progressivo spopolamento di questi quartieri, ora in degrado. Ovunque si vedono cartelli “vendesi” su muri e portoni abbandonati. La speculazione edilizia allontana sempre più i residenti originari, trasformando le case degli autentici ortigiani in case-vacanza per turisti, snaturando la bellezza e l’unicità dell’isola.
Il mio progetto fotografico cerca di catturare questa realtà in mutamento, con un approccio emotivo piuttosto che didascalico. Le immagini evocano un senso di vuoto e abbandono, percependo presenze umane antiche e ancestrali, non identificabili nei residenti attuali. Vegetazione stentata e lussureggiante che cresce tra le crepe dei muri antichi rappresenta una forza di resistenza e speranza.
Foto e testo di Afio Torrisi