I miei bisogni sono molti, come quelli di tutti. Il bisogno di nutrirsi, di indossare abiti eleganti, di sfogliare un libro, di fare l’amore, di ricevere un bacio, di pregare, di ascoltare musica, di godersi il sole, di camminare, di riposare. E così via.
Ma c’è un bisogno unico che sento ardere dentro di me, un desiderio profondo che sembra appartenere solo a me: il bisogno di Ortigia. Di perdermi in quella città, immerso nel suo clima umido e avvolgente, di confondermi tra la folla che si muove tra le strade, le piazzette e lungo la Marina, di lasciarmi incantare dalla bellezza sospesa dei tramonti e dalle eleganti dimore settecentesche, o dal silenzio senza tempo dei templi greci.
Questo bisogno è come una fame, una sete, un amore irrefrenabile, impossibile da controllare. Ti assale improvvisamente, riempie il corpo e assedia la mente. Devi partire. È una sensazione tutta mia, difficile da spiegare. Forse è il richiamo dei miei antenati greci, che mi tirano le braghe dall’aldilà per ricordarmi che devo tornare a casa. Eppure, a Ortigia non conosco nessuno, non ho case da visitare né tombe da onorare. Eppure, quel richiamo arriva puntuale, a intervalli variabili, e mi invade fino a diventare pressante e incombente. Devo andare.
Ortigia è un palcoscenico di virtù e debolezze umane, uno stato alterato della mente, un allucinogeno per l’anima. Non so cosa cerco, ma ogni volta che arrivo mi sembra di essere lì per la prima volta, e quando riparto ho la sensazione che potrebbe essere l’ultima, come se avessi finalmente spezzato l’incantesimo che mi ha riportato lì ancora una volta.
“Sono guarito” mi dico ogni volta che riprendo l’auto per tornare a casa. E invece no. Dopo tre mesi, sei mesi o un anno, ritorna la voglia di Ortigia. È un marchio che emerge da dentro, prima ancora che abbassi i finestrini. È un tentativo estremo di trattenerti in questo déjà vu di odori, di caldo soffocante, di persone attonite che si muovono come automi. Città invivibile per il caldo estivo, città difficile per il suo dialetto intricato che trasforma le parole. Città controversa per i piccoli commerci di artigianato mescolato, per il lusso firmato ma prodotto altrove. A Ortigia si va per un richiamo ancestrale o per un bisogno di stordimento e straniamento.
Gli stranieri divorano Ortigia con gli occhi, come se fosse commestibile. Capisci che non torneranno mai più nella vita e vogliono assaporare ogni angolo di casa sbrecciata, ogni pezzo di barca siracusana, ogni arco di chiesa. Lo fanno perché temono che un giorno Ortigia possa scomparire, inghiottita dal mare o dall’incuria degli uomini, e vogliono portarsi via un ricordo come fosse un pezzo di muro o una scheggia di remo.
Ho visto la luna, ho visto l’alba, sono arrivato persino con una piccola nave da crociera attraverso l’imbocco del porto. Eppure so che c’è qualcosa che ancora mi manca di Ortigia, lo sento nell’aria quando arrivo o quando parto, c’è qualcosa che non riesco a spiegare che mi dice che devo cercare. Non so se sia qualcosa di bello o brutto, importante o meno, ma è lì, che mi aspetta e mi chiama.